#8️⃣ Una piccola esperienza di solidarietà e prossimità cristiana
di Roberto Caristi
Genova, venerdì mattina. Vado verso il lavoro e salgo sul bus n. 3, in via Milano, restando assorto nella lettura. Un ragazzo va dall’autista (una giovane donna) segnalando che nei sedili posteriori c’è una ragazza accasciata, con la testa appoggiata al finestrino e la borsa aperta: non si capisce se dorma o stia male. Un’altra donna, che è in borghese ma si qualifica all’autista come collega, conferma e le dice di accostarsi alla prima fermata di via Dino Col, che in breve viene raggiunta.
Mentre l’autista e la collega prestano un primo soccorso, insorgono tre passeggeri attempati (due uomini e una donna), sbraitando che certamente si tratta di una drogata e perciò dovrebbe morire (naturalmente nessuno ha ancora accertato che cosa abbia la ragazza), che loro hanno fretta e che la buttassero sul marciapiede.
Un quarto uomo (?) interviene dicendo che quella ragazza si trovava in quelle condizioni sin dalla partenza dal capolinea: è colpa dell’autista non aver controllato da subito il bus. Gli chiedo perché, essendosi accorto della situazione, non abbia pensato lui ad avvisare l’autista, prendendosi un briciolo di responsabilità. Risponde, alterato: “Figuriamoci se devo occuparmi di tutti quelli che dormono sugli autobus”. Gli altri tre, intanto, continuano con le loro invettive sui drogati (uno accusa l’autista – che sta soccorrendo la ragazza – di aver cercato una scusa per non lavorare).
Disgustato, dico a tutti e quattro, a gran voce, che sono semplicemente disumani, che si sono messi fuori dal consesso umano. Dopodiché vado ad aiutare l’autista – al telefono con il 118 – a sdraiare la ragazza nel corridoio del bus e a effettuare i primi accertamenti, mentre le tengo sollevate le gambe. Quando l’autista toglie la mascherina alla ragazza mi rendo conto che si tratta di un’immigrata… Intanto alcuni altri passeggeri (pochi) si avvicinano per esprimere solidarietà.
La donna incarognita insiste che è per colpa della vostra ‘tolleranza’ che siamo in queste condizioni: “ma per fortuna adesso cambierà…” Le dico di augurarsi che una cosa del genere non succeda a sua figlia o a sua nipote.
Arrivano i soccorsi e io mi accomiato dall’autista, lasciandole i miei riferimenti come testimone nel caso che qualcuno di quei personaggi pensasse di fare un esposto contro di lei.
Arrivo in ufficio e racconto la storia ai miei colleghi… MR mi chiede qual è l’antidoto…
Vediamo qui il frutto del veleno sparso per decenni – senza argini – da chi reclama la reclusione e il ‘respingimento’ dei diversi, di chi sta in fondo alla scala sociale, indicato come causa del disagio di chi sta appena un gradino più in alto. Una truffa che occulta la vera natura di quel malessere: poche persone ai vertici del potere economico, che manovrando istituzioni e comunicazione sottraggono risorse, opportunità e perfino la vita a un’umanità che sta in basso e non ha ancora coscienza di sé.
Così abbiamo una società sfibrata e corporativa, dove ci si aggrega per piccoli interessi e si costruisce senso comune (e con-senso) sulla paura e sul mugugno, con l’invidia (dissimulata) verso i più forti e il rancore cieco e sordo verso i più deboli… percepiti come il nostro possibile e minaccioso futuro.
L’antidoto siamo noi, dico a MR, con tutti i nostri limiti, se sappiamo prendere posizione e lottare ogni giorno per ciò che nel profondo sentiamo giusto, bello, vero e vitale. Se sappiamo restituire speranza, voce e forza a chi si sente schiacciato e ferito. Se sappiamo costruire relazioni significative, anticipando qui e ora quella società a misura umana di cui sentiamo il desiderio e la nostalgia.